L’Autunno in montagna – parte seconda

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Proseguivamo in silenzio sulla terra scura, con chiazze verdi di muschio e qualche foglia caduta. La luce del sole, talvolta, vinceva la concorrenza con i rami degli alberi, per lo più ancora grondanti di foglie, che di lì a poco sarebbero cadute, velando la terra, l’erba ed il muschio: un mantello pregiato e variopinto avrebbe coperto quegli spazi come ogni anno, da sempre, rendendo più dolce il passeggiare e più lieto il vivere. La semplice idea che ci fosse qualcosa sempre uguale ed eterna, che portava le stagioni a farsi posto e susseguirsi l’un l’altra, ci mise di buonumore. Camminammo parecchio, mentre la temperatura scendeva e l’aria diveniva più delicata. In cuor nostro, senza usare parole, avevamo deciso e concordato di lasciar perdere la ricerca delle vie dei briganti. Ciò che avevamo davanti era più che sufficiente, desideravamo solo fonderci totalmente con ciò che ci circondava. Prestavamo attenzione ai funghi che spuntavano improvvisi, tendendo l’orecchio per ascoltare i discorsi degli uccelli, sperando di incontrare qualche animale lungo la strada. Non accadde. E allora, stanchi, decidemmo di sostare. Stendemmo a terra il nostro telo, e l’aria mossa fece volare qualche foglia caduta, in una leggera ed elegante danza. Ci sedemmo, bevemmo acqua e mangiammo un po’, per ristorarci dalla fatica. Poi, ci stendemmo completamente, l’uno accanto all’altro, e fissammo l’azzurro del cielo incorniciato tra il verde di preziosi rami. Eravamo soli, lontani, felici. Ci baciammo a lungo, innamorati.

 

* * *

 

Tornai da solo in quei luoghi circa un anno dopo quell’episodio. Non ero alla ricerca del sentiero che allora non riuscii a trovare, cercavo piuttosto la zona nella quale mi fermai quella volta, in sua compagnia. Avevo percorso tutta la strada –  fino a quando ero stato costretto ad abbandonare l’auto – in silenzio, senza ascoltare la radio, senza parlare con nessuno per ottenere informazioni. A dispetto del tempo trascorso, ricordavo tutto bene, nei minimi particolari. Il percorso attraversato, le parole scambiate, i volti incrociati. Ora non avevo una fotocamera con me, né acqua né viveri. Ma, rispetto ad allora, una strana, particolare inquietudine riempiva il mio animo, anche se ignoravo la sua reale essenza, i suoi profondi effetti. Gli alberi erano gli stessi di quell’amaro Ottobre, vestiti allo stesso modo, recitanti la stessa parte, ma erano tutti troppo uguali tra loro perché li distinguessi e traessi informazioni utili per individuare il luogo della sosta. Non riuscivo a carpire informazioni, e vagabondai parecchio, combattendo contro l’assurda idea di ritrovare quel posto. Era impossibile, mi dicevo, ma non riuscivo a convincermene. E quand’anche l’avessi trovato, cosa avrei ottenuto? Qualche sguardo avrebbe regalato emozioni diverse da quelle solite, figlie dei ricordi? E ne sarebbero stati ridestati degli altri, adesso? Non trovavo risposta, tra un passo e l’altro percorso nell’aria fredda, sotto spiragli di cielo coperto, grigio. Qualche rametto, spezzato e caduto in terra, gridava il proprio dolore a Madre Natura quando lo calpestavo, ma io continuavo a procedere, insensibile.

 

Dovetti fermarmi, tuttavia, quando vidi un uomo poco lontano dal punto dov’ero, seduto su una grossa pietra muschiata. Non lo avevo notato prima, nascosto com’era dalla fitta vegetazione. Aveva lo sguardo perso, la sua espressione era stanca, il suo aspetto dimesso. Mi avvicinai, convinto chissà perché, che non potessi ignorarlo, né evitare quell’incontro, procedendo semplicemente oltre. Ebbi la sensazione che mi toccava parlare con lui.

«Salve, buon uomo» gli dissi, quando gli fui sufficientemente vicino.

«Gli uomini non sono mai buoni, nemmeno se prossimi alla morte» rispose fissandomi, quieto. Aveva occhi sofferenti e profondi, verdi. Il suo sguardo ora non era più perso, ma indagatore. La mia presenza, il mio arrivo, le mie parole, non lo avevano né sorpreso, né spaventato. Non incuteva timore, e non avvertii la sua frase come una minaccia, per quanto potesse sembrare strana ed inconsueta in occasione di un primo incontro con un estraneo.

«Com’è pessimista, io non credo che le cose stiano…» mi bloccai, cominciando a confondermi e a farfugliare. Il suo sguardo, che per la prima volta si era davvero fermato su di me, mi scrutava nelle pieghe più nascoste dell’anima. Era come se fossi nudo, eppure dopo il primo, iniziale imbarazzo, provai quasi sollievo e mi offrii alla sua analisi visiva, proprio come un paziente affetto da un male invisibile, che mette a disposizione tutto se stesso al medico che ha il compito di curarlo. Ad ogni modo non riuscii a terminare il mio pensiero.

«Cosa ti affligge?» mi domandò, sereno e incurante della frase che prima gli stavo dicendo e che lui aveva troncato. La domanda mi fu posta più per spingermi ad affrontare l’argomento, che per ottenere una risposta di certo già nota al mio interlocutore. Almeno così credetti.

«Io…sento che manca qualcosa. Sento che alla mia vita manca qualcosa». Gli confessai, senza nemmeno rendermene conto. Forse nemmeno io sapevo di essere turbato da un’inesplicabile assenza. Perché fui così sincero con lui, con uno sconosciuto?

«Quindi sei tornato in questi luoghi…».

Il verbo che usò non mi sorprese. Con un’espressione rassegnata feci un segno affermativo con la testa.

«Sai, questi luoghi conoscono migliaia di anni, migliaia di anime, migliaia di vicende».

«Per questo sono venuto». Affermai. «E venni anche allora», aggiunsi, come se solo ora me ne rendessi conto.

Mi fissò con attenzione, spingendomi a continuare ad esternare i miei pensieri.

«Beh,  credevo…credo…magari questi luoghi…».

«Non sono disposti a dividere la loro saggezza con tutti». Le parole e il tono erano perentori, non ammettevano repliche.

Stette in silenzio diversi attimi, poi mi confessò:

«Devi cercare altrove ciò di cui hai bisogno».

Arrossii ascoltando queste parole. Avevo capito tutto, e provavo vergogna per non averlo fatto prima. Abbassai lo sguardo, distogliendolo dall’uomo. Mi guardai intorno, imbarazzato; nel farlo, vidi qualcosa che si muoveva tra gli alberi: una volpe. Era poco lontana da me, stupenda nel suo folto manto color arancione autunnale, indifferente ai miei turbamenti. La guardai per un attimo, poi mi girai indietro, verso il percorso che avevo compiuto per giungere lì. Non sentii il bisogno di continuare quel discorso, né di salutare, né tanto meno di proseguire la mia ricerca. Semplicemente, mi incamminai lungo la strada del ritorno, verso il luogo nel quale avevo lasciato la mia auto. Un nuovo, grande desiderio di confessare l’esperienza appena vissuta mi avvinse. Mentre scendevo, sorridevo.

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L’Autunno in montagna – parte secondaultima modifica: 2009-10-21T11:34:00+02:00da carminedecicco
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