L’invidia (capitolo I)

Era una notte fresca, un vento leggero faceva danzare qualche foglia, gialla o rossa, regalandole qualche secondo di gioia prima di farla stendere nelle acque del fiume. Questo, col suo lento fluire, accompagnava i miei passi, percorsi un po’ alla cieca, nella fitta boscaglia della proprietà Dunne. Le alte querce impedivano alla luce della luna di illuminare i miei passi. Amavo, allora come ora, ascoltare il loro rumore, quando calpestavano rametti secchi o vuoti gusci di lumache. La scarsa illuminazione a stento mi permetteva di distinguere gli alberi quando mi trovavo a pochi metri di distanza da loro. Non riuscivo, quindi, a vedere il variopinto fogliame che ricopriva il sentiero come un prezioso tappeto di Persia. Ero di ritorno dalla locanda, l’unica locanda che c’era nel nostro villaggio, costruita cinquanta anni prima della mia nascita da un amico del mio povero padre. Grazie alla scorciatoia che stavo percorrendo sarei rincasato risparmiando diversi minuti, tagliando attraverso i boschi, nella solitudine più totale. Si raccontava che nemmeno gli animali transitassero mai in quei luoghi e il perché era spiegato in decine di differenti racconti, ognuno dei quali pretendeva di essere l’unico fondato ed attendibile.

 

Mary Line è scappata

È scappata col suo amante

Un amante forestiero

Uomo forte e misterioso

 

Mi sorpresi a ripetere questa antica ballata che mia madre soleva cantarmi nei bui pomeriggi d’autunno, mentre insieme aspettavamo il resto della famiglia che tornasse da lavoro. Amavo queste strofe, forse perché le associavo sempre alla mia mamma che le cantava con la sua voce melodiosa e con un dolce sorriso stampato sul volto. A mia volta riferivo le parole della triste storia di Mary Line al mio amico Neil, che mi ascoltava rapito, sebbene gli raccontassi sempre la stessa vicenda, apportando qua e là qualche modifica nel caso in cui un certo particolare mi sfuggisse. Anche quella sera ricordai al mio vecchio amico Neil le avventure della giovane donna e, con mia grande sorpresa, lui le ricordava benissimo. Aveva la barba ben rasata, i capelli tagliati e sistemati in maniera inusuale, vestiti nuovi ed eleganti confezionati su misura in chissà quale lontana città, eppure dietro l’odore di lindo e l’aspetto da signore c’era sempre lo stesso ragazzo col quale avevo corso nei prati durante la mia infanzia, col quale avevo dato la caccia alle lepri, alle farfalle, agli uccelli. Era sempre il buon vecchio Neil, nonostante avesse fatto fortuna sul continente. Ricordo ancora il giorno della sua partenza. Il sole era sorto da poco, e quindi illuminava solo in maniera incerta la piccola banchina presso la quale noi amici ci eravamo riuniti per dare l’addio al nostro compagno. Era così strano vederlo con quella vecchia valigia tra le mani, acquistata usata al mercato domenicale. Era così strano trovarsi tutti lì, lontano dalle nostre case, in mezzo a quei fumi esalati da grossi edifici di muro e ferro, illuminati a stento da un sole che non riusciva a vincere la concorrenza con le nuvole. Ma soprattutto, quello che era davvero difficile da accettare era il fatto che Neil stesse andando via. Dio solo sapeva per quanto tempo non lo avremmo rivisto.

«Tornerò» ci promise agitando la mano dal ponte della Red Flower.

 

«Sono tornato!» fu la prima sua battuta di quella sera, quando ci accolse con le braccia spalancate e un sorriso smagliante, elegantissimo nel suo abito di tweed. Sembrava un politicante, uno di quegli uomini vestiti di tutto punto che pretendevano di modernizzare il nostro villaggio se solo avessimo votato per loro. Come quegli uomini, Neil parlava in maniera fluente, senza errori, senza pause per trovare il termine adeguato, con voce sicura e con un’espressione che denunciava il suo nuovo status, lo status di una persona che ce l’ha fatta. Perché Neil ce l’aveva fatta. Quella sera trascorremmo ore a parlare di come c’era riuscito, di tutto ciò che aveva visto lì, nel continente, e di come le cose fossero andate qui da noi, durante i dodici anni della sua assenza. Avevamo brindato, cantato, scherzato, e ancora parlato, fino a quando, un po’ per la paura degli altri, un po’ presagendo una partaccia dei nostri datori di lavoro l’indomani, per la disattenzione figlia delle poche ore di riposo, decidemmo di rincasare, non prima di aver preso l’impegno solenne di rivederci la sera successiva.

 

Per risparmiare tempo e guadagnare riposo imboccai quindi la scorciatoia e confesso che era la prima volta che percorrevo quei luoghi di notte. Ero passato di lì solo con la luce del sole, mentre ora il cielo era occupato da una malinconica luna piena che io potevo ammirare solo a tratti, a causa dei folti e numerosi alberi che costeggiavano il sentiero. Improvviso, dietro uno di questi, si liberò un rumore che empì l’aria, altrimenti muta. Era come se qualcuno avesse corso un breve tratto di sentiero, districandosi a fatica tra i rami bassi. Ebbi paura, eppure decisi di scoprire la causa di quel fruscio, di quello scalpiccio. Con un atteggiamento tipico del mio popolo, mi mossi verso ciò di cui avevo paura, non certo per affrontare i miei timori, ma solo per dare un volto a ciò che mi spaventava. Paura e curiosità. Andava avanti così da sempre. Mi accostai ad un castagno imponente poco lontano dalla via che stavo percorrendo. Lo raggiunsi e mi nascosi dietro al suo tronco massiccio. Con cautela sporsi la testa verso il luogo che le mie orecchie avevano qualificato come epicentro del rumore. Un riflesso illuminò il mio viso. C’era una piccola pozza d’acqua nella quale un raggio di luna si rifletteva. Forse qualche animale si era fermato a dissetarsi. Ma non dovevano disertare quei luoghi?  Mi sorpresi a premere con forza con le mie mani il legno dell’albero. Ero teso ed inquieto. Che si trattasse di un altro? Mi dissi che stavo esagerando, che divenivo sempre più suscettibile. Mi voltai verso la strada già percorsa, e la vista di ciò che era noto mi infuse calma e coraggio. Il fiume scorreva tranquillo, indifferente ai miei turbamenti.  Presi ancora una volta coscienza del fatto che fosse tardi e mi decisi a ripartire. Inaspettatamente, tuttavia, dopo pochi passi tornai a guardare verso la pozza d’acqua, come guidata da una forza misteriosa ed ammaliante.

 

Rimasi di sasso. Passarono secondi che mi parvero ore, poi, il mio sangue riprese a fluire. Ero così concentrato che percepivo il modo di lavorare di ogni mia singola cellula. Non mi interessava nulla più, avevo perfino dimenticato chi fossi.  Tutta la mia attenzione era rivolta a lei. Lei era una donna, una donna dai lunghi capelli neri. Indossava una lunga veste bianca che le dava un aspetto soprannaturale, accentuato dalla luce perlacea della luna che l’acqua stagnante riverberava sul suo corpo. Non avevo mai visto niente di simile. Era di una bellezza straordinaria, e aveva tratti così diversi da quelli delle donne della mia contea. Chissà perché, credetti che si chiamasse Mary. Mary come Mary Line, la giovane fuggita con un amante straniero. Anche lei doveva essere straniera. La osservai meglio. Il volto era pallido e questo faceva risaltare le rosse labbra e i contorni scuri degli occhi. Aveva il naso dal profilo nobile, come quello di alcune antiche statue in marmo che avevo potuto osservare durante una gita nella capitale, qualche anno prima d’allora. I capelli erano sciolti, lisci, e con ordine le scendevano lungo quell’indecifrabile veste che copriva il suo corpo. Le arrivava alle caviglie, lasciando appena vedere i suoi piedi nudi. Non sembrava un abito adatto ad essere indossato per uscire, ma nemmeno una vestaglia da notte. Forse non lo avrebbero indossato le donne del mio popolo, ma era il vestito tradizionale della gente a cui Mary apparteneva. Perché lei per forza di cose doveva essere straniera. Mi chiesi se venisse da un altro paese o da un altro mondo. Mi chiesi anche cosa ci facesse a notte fonda in mezzo ai boschi a piedi nudi. Mi ponevo queste domande continuando a fissarla con gli occhi sgranati. Mary si girò di colpo, come se si fosse resa conto del mio sguardo che indugiava e scandagliava il suo corpo. Si voltò, e i nostri occhi si incrociarono. Le sue pupille avevano lo stesso colore dell’erba fresca, la sua espressione mi parve misteriosa. Credetti di fluttuare nell’aria, come se il contatto tra i nostri occhi mi avesse permesso di annullare tutto ciò che intorno a noi c’era. Io e Mary nel vuoto, uniti da uno sguardo il cui significato mi era precluso. Uno sguardo che però riusciva a leggere la mia anima, la mia mente. Come un antico libro lasciato aperto su un leggio di legno. Ed ero io quel leggio.

 

Il mio cuore batteva forte, troppo. Abbassai lo sguardo, solo per un attimo. Sentii di nuovo il suolo sotto i miei piedi. Vidi la folta vegetazione intorno a me. Sentii la voglia di tornare a fissarla. Ma quando alzai gli occhi non c’era più. Era sparita nella notte senza lasciare tracce, senza indicare una direzione. Era forse stata prodotta dalla mia immaginazione, alterata dalla paura e dalla birra? Era stata un’apparizione? Ma perché proprio io avevo avuto questo privilegio? L’uomo giusto, nel momento giusto, pensai. In effetti allora l’idea che quella visione o quella donna reale potesse essere fonte di guai o legata ad una dannazione, non mi sfiorò nemmeno. Tuttavia decisi di non indugiare oltre, e quasi di corsa procedetti verso la mia dimora, nella notte sempre più fonda e densa. Il resto del sentiero scivolò veloce sotto i miei passi, che fermai soltanto raggiunta la soglia d’ingresso della mia casa. Entrai, richiusi la porta lignea alle mie spalle, e dopo un profondo respiro, mi gettai sul letto, ancora profondamente turbato. Nell’ansia di addormentarmi dimenticai perfino di cambiarmi d’abito.

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L’invidia (capitolo I)ultima modifica: 2009-04-11T09:54:00+02:00da carminedecicco
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