Carmine De Cicco

Salò o le 120 giornate di Sodoma – recensione del film di Pier Paolo Pasolini

«Nulla è più anarchico del potere. Il potere fa praticamente ciò che vuole e ciò che il potere vuole è praticamente arbitrario o dettatogli da sue necessità di carattere economico che sfuggono alla logica comune. […] Io detesto in particolare il potere di oggi […] è un potere che manipola i corpi in modo orribile e che non ha nulla da invidiare alla manipolazione fatta da Hitler: li manipola trasformando le coscienze, cioè nel modo peggiore; istituendo dei nuovi valori alienanti e falsi, che sono i valori del consumo; avviene quello che Marx definisce: il genocidio delle culture viventi, reali, precedenti».

[Pier Paolo Pisolini]


“Salò o le 120 giornate di Sodoma” è un film del 1975 scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini, uno dei più grandi artisti ed intellettuali italiani del secolo scorso, barbaramente assassinato ad Ostia nel novembre dello stesso anno. Il film si ispira al romanzo del marchese de Sade (il nome di questo scrittore e filosofo francese nato nel 1740 è all’origine del termine sadismo): Le centoventi giornate di Sodoma. Pasolini parte dal romanzo e lo fonde con alcuni spunti dell’Inferno dantesco (vedi la divisione in gironi) per realizzare una straordinaria critica al potere, in ogni sua forma. L’impostazione del film è allegorica, e oltre la violenza e il disgusto che permea in superficie le scene c’è un attento e pregevole lavoro intellettuale, volto alla citazione artistica e all’attenta composizione delle scene. Sebbene ancora una volta Pasolini ricorra ad attori non professionisti, in Salò quindi egli cerca di raggiungere la perfezione tecnica a differenza di altri suoi film.


La trama è presto detta: quattro gerarchi fascisti rapiscono un congruo numero di giovani ragazzi e ragazze per tenerli prigionieri ai propri ordini e vittime delle proprie perversioni in una villa separata dal resto del mondo: è in scena il potere che vive solo per se stesso, che si esclude da tutto il resto, che mostra l’inconsistenza delle sue fondamenta. Il potere che serve solo se stesso (ricordate 1984 di Orwell?). Con regole e leggi totalmente arbitrarie in questa villa si ricrea un mondo dominato dai capricci sado-masochisti di questi quattro signori, che alla fine stermineranno i prigionieri tra balli grotteschi, buffi indovinelli e cupi gesti di perversione erotica.


Il sesso è al centro della pellicola, così come il sangue e gli escrementi. Pasolini vuole insistere sulla completa degenerazione della società che ha trasformato perfino la sessualità, da atto di liberazione e piacere, a pura mercificazione, rendendolo un’attività quasi obbligatoria e quindi ignobile, manipolata. Della libertà agli uomini non resta nulla, e così tutti sono vinti dal male, perché essi stessi diventano strumenti del male, incapaci di ribellarsi. Lo si vede bene in una delle ultime scene, nella quale ogni prigioniero accusato di una colpa diventa delatore per salvarsi. Ma la salvezza non è possibile, nemmeno con la morte, qui mero preludio a nuove ed orribili torture.


Queste torture “finali” sono mostrate attraverso un binocolo dal quale ciascuno dei gerarchi guarda seduto comodamente sulla propria sedia all’interno di una lussuosa stanza. Si dice che il regista non abbia filmato tutto ciò che in un primo momento aveva intenzione di inserire nella pellicola, per evitare di aumentare le scene raccapriccianti del lungometraggio.


Nella villa-mondo il tempo e l’esterno non hanno più ragion d’essere. Talvolta, però, si sente proveniente da fuori il rumore di qualche aereo, a ricordare che nel mondo reale è in corso una guerra, la seconda mondiale (il film è ambientato nel 1944-45). Eppure quella tragedia scolorisce di fronte a questa che si vive ora in villa, perché questa è una tragedia che mina alla base la dignità e l’anima degli uomini. E se è vero che chi compie oggi violenza l’ha subita in passato (così come le donne-narratrici) è pur sempre vero che qui la violenza appare un’entità consustanziale alla natura umana e all’esercizio del potere, quasi una forza autonoma che vive e prospera di per sé, involgendo tutto ciò che incontra.


Al di là della durezza e della scabrosità della maggior parte delle scene (che deve tener lontano dallo schermo chi è facilmente impressionabile), credo sia d’obbligo esaltare il grande coraggio di Pasolini,  che ha realizzato scene mai viste prima, scene sconvolgenti, che dopo esser state viste non possono esimere da una riflessione, eppure scene geniali allo stesso tempo (come quella degli uomini al guinzaglio come cani), scene che rendono senza dubbio questo film un capolavoro, un capolavoro di difficile fruizione, certo, ma pur sempre un capolavoro…

 

Salò o le 120 giornate di Sodoma – recensione del film di Pier Paolo Pasoliniultima modifica: 2010-03-21T12:53:00+01:00da
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