Carmine De Cicco

Berlin Subway

Grigio e fresco, nonostante fossimo ancora nel pieno dell’Estate, era giunto anche il penultimo giorno della mia permanenza berlinese. Dopo essermi girato per una decina di minuti nel letto, intento a ritrovare un sonno necessario quanto schivo, decisi di averne abbastanza di tentativi vani e infruttuosi e così di lì a mezz’ora fui in strada. Solo. Nella condizione, cioè, ideale per entrare appieno nello spirito della città. Venivo da qualche notte di bagordi, ore piccole e fredde birre chiare e, come me, le strade del quartiere nel quale mi ero insediato al mio arrivo a Berlino erano assai provate. Lattine in alluminio e bottiglie in vetro da trentatré centilitri giacevano abbandonate sui marciapiedi o ai lati della carreggiata. Avanzi di colazioni ipercaloriche si fingevano suppellettili su piccoli tavoli in legno sistemati all’aperto, appena fuori da minuscoli locali arabi o italiani. Qua e là qualche insegna istruiva sul Lidl più vicino, altre, invece, erano affisse sulle porte di tristi locali adibiti a centri di comunicazione in miniatura, con una mezza dozzina di computer per navigare in rete e altrettanti telefoni per chiamate internazionali.


A dispetto della finissima pioggia che era cominciata a cadere, il tragitto fino alla stazione più vicina, Ostkreuz, fu piacevole. Al solito, neanche il tempo di giungere alla piattaforma che costeggiava il binario numero quattro, e il treno era già lì ad aspettarmi, mezzo sgombro come di consuetudine: si sarebbe riempito più avanti, ad Alexanderplatz, a Friedrichstraße, dove turisti e berlinesi avrebbero affollato i vagoni, contribuendo a viziare ancor più l’aria a bordo.


Sedetti accanto ad un giovane in abiti neri, i capelli tinti di un verde chiaro, lucido. Con sé aveva una bicicletta molto vissuta e nel focalizzare su di essa l’attenzione, immediatamente mi chiesi come il ragazzo facesse a pedalare, scalzo com’era. In quei giorni non era il primo che incontravo in giro a piedi nudi. Vinta l’iniziale titubanza, gli chiesi a quale fermata dovessi scendere per raggiungere l’Hard Rock Cafe: lì avrei dovuto acquistare alcuni souvenir da regalare a parenti e amici. Hans, così si chiamava, mi fissò con un sorriso scettico che non nego mi procurò una strana sensazione. Credetti in un primo tempo si trattasse di fastidio. Nondimeno, dopo aver ottenuto l’informazione richiesta, continuai a dialogare col mio inglese che giusto in quei giorni cominciavo a liberare dalla ruggine formatasi in un anno di silenzio.


Fu una discussione interessante ed inaspettata, fatta di frasi semplici e scolastiche, ma ricche di efficacia comunicativa. Gli dissi cosa pensassi della sua città – Hans era nato e cresciuto a Berlino – e cosa io ci facesse lì. Domandai in che modo i tedeschi si rapportassero col proprio passato. Tra una frase e l’altra osservavo i pendolari che, stazione dopo stazione, salivano sul treno: i loro volti chiari, i capelli color biondo platino o nero, i loro occhi azzurri o verdi. Le borse delle donne, gli zaini dei ragazzi: ero un osservatore onnivoro ed interessato. Di tanto in tanto, mi chiedevo se quell’anziano fosse stato nazista, se quel padre di famiglia avesse contribuito a scalfire e far crollare il Muro, se quella donna avesse vissuto a est o a ovest della città divisa in due. Mi resi conto che un solo, breve viaggio non avrebbe esaurito la mia curiosità.


«See you soon» dissi infine al mio interlocutore, e, insieme, alla sua città. La stazione alla quale sarei dovuto scendere l’avevo superata da un pezzo. E da altrettanto tempo sapevo che era imbarazzo ciò che avevo provato per il sorriso scettico di Hans.

Berlin Subwayultima modifica: 2010-09-04T13:25:49+02:00da
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