Carmine De Cicco

Montedidio – Recensione

«Anno nuovo, vita nuova». Un’affermazione che si può sottoscrivere appieno per Montedidio, romanzo di formazione scritto da Erri De Luca nel 2001, che si conclude con la notte tra l’ultimo giorno dell’anno vecchio e la prima di quello successivo, una notte di botti, schianti e voli, ammirata dalla suggestiva altura di Montedidio, quartiere napoletano insieme sfondo e protagonista delle vicende narrate nell’omonima opera. Una notte, quella di Capodanno, che segna l’avvenuta maturazione della voce narrante, che non a caso si palesa proprio nell’acquisizione di una nuova voce, «raglio d’asino che strappa i polmoni», che fa gridare e che non può trovare posto sul rotolo dove fino a un momento prima aveva scritto le vicende occorse a lui e ai suoi cari a partire dal suo primo giorno di lavoro. Nell’ultima pagina del libro, quindi, finalmente si raggiunge tutto ciò che fin dall’inizio del romanzo era stato inseguito, cosicché l’iniziazione e l’itinerario di formazione risulta del tutto completato.

Erri De Luca utilizza un linguaggio costituito da un miscuglio di lingue attraverso il quale riesce a comunicare la sensazione di immediatezza, con frasi spesso perentorie e sentenziose. Il narratore scrive in italiano, ma è un italiano che con forza risente dell’influenza del dialetto. Continui, poi, sono i confronti, anche metaletterari, tra la lingua napoletana e quella italiana. L’autore, anche quando descrive la quotidianità, anche quando affronta temi delicati quali la pedofilia, la lotta per la sopravvivenza, l’infanzia abbandonata a se stessa, non rinuncia mai alla poeticità, alla gentilezza delle descrizioni indulgendo raramente al patetismo. I capitoli si susseguono brevi e veloci, come tanti piccoli bozzetti posti gli uni accanto agli altri a formare un collage che illustra un momento fondamentale della vita di ognuno, il passaggio dall’infanzia all’età adulta, la scoperta dell’amore e del sesso.

In un tempo non ben delineato – scarse, infatti, le indicazioni cronologiche – con l’esperienza bellica che brucia ancora – con accenni anche alle Quattro giornate di Napoli – e che ha aumentato la povertà e la difficoltà della vita, un bambino abbandona la scuola e prende a lavorare presso la bottega di Mast’Errico, falegname in gamba che lavora con diligenza. Nella stessa bottega è ospite don Rafaniello, ebreo dal nord Europa che cercando Gerusalemme ha trovato Napoli – più volte nel testo è proposto un confronto tra le due città – e che fa il calzolaio per i «puverielli», i quali non lo possono pagare che con la loro gratitudine, la più preziosa tra le monete. Ma oltre al lavoro per la voce narrante c’è altro: innanzitutto Maria, che egli impara a conoscere e amare, e il bumeràn, regalo del padre, col quale si allena ogni giorno per fargli spiccare un unico volo tra lo spazio ostruito del quartiere di Montedidio – «la città è ostruita a muri e balconi, cielo non ne passa». E il libro, specie nella parte finale, è tutto proteso verso questo volo, reale e simbolico, che coinciderà anche col volo di Rafaniello, deciso a raggiungere attraverso il cielo Gerusalemme, ubbidiente a un’antica profezia.

L’opera è colma di ingenuità popolare, come dimostra, a esempio, il continuo insistere sugli spiriti che infestano case e palazzi. A questa bisogna poi aggiungere l’ingenuità della voce narrante, bambino puro, che ha ricevuto un’ottima educazione dalla famiglia, povera sì, ma anche capace di donare al piccolo dignità, orgoglio e fierezza. Ma questi sentimenti sono ora offuscati dalla malattia della madre, che si insinua fin dalle prime pagine – anche il bambino, del resto, quando era più piccolo era assai debole – e sconvolge l’idilliaca vita della famiglia, col padre che ormai sembra vivere solo proiettato nel passato – specie dopo la morte della consorte – e il figlio che si sforza di crescere. A Napoli, del resto, si deve crescere in fretta.

Montedidio – Recensioneultima modifica: 2011-02-28T17:58:47+01:00da
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