Sangue e idromele – parte seconda

Dopo la breve interruzione, pubblico ora la seconda parte del racconto “Sangue e idromele”, ricordando a chi se lo fosse perso che l’inizio si può leggere qui.


Già, il prima possibile. Era dunque per questo che da quando con l’automobile aveva lasciato il garage della sua casa nella Napoli bene non aveva fatto altro che correre, desiderando di arrivare quanto prima alla fabbrica e di qui, dopo aver preso ciò di cui aveva bisogno, recarsi all’appuntamento in quel triste bar dove da anni, ogni 31 ottobre, era solito incontrare «il suo consulente per le questioni più intricate», come frettolosamente rispondeva a quanti gli domandavano chi mai fosse quell’uomo dall’aspetto così poco raccomandabile che di tanto in tanto chiedeva di lui.

 

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G. controllò l’orologio. Avrebbe fatto tardi, e quell’uomo non amava affatto aspettare. Ma quella sera non poteva essere puntuale come al solito, svelto e deciso come in ogni decisione che prendeva, nella vita lavorativa come in quella privata. Più gli anni passavano, più gli costava fatica ripetere quella sorta di rituale immorale e squallido. Quella volta era assolutamente risoluto a far saltare tutto, a liberarsi dei grossi pesi del sotterfugio e del senso di colpa, e ammettere tutta la verità, palesare il peccato originario che aveva macchiato il suo onore e la vita della Kvasir Bevute.

 

 

 

Eppure, quantunque con un forte ritardo, aveva optato per tenere ancora a fondo la verità. Sì, ancora: aveva utilizzato proprio questo termine nelle sue elucubrazioni, condotte nel salone di casa sua in uno stato crescente di ansia e di tensione, tra bicchieri di rhum e sigarette accese le une dopo le altre. Certo era che non sarebbe riuscito a tenersi tutto dentro per sempre. Ma, sicuro dell’effetto dirompente che la rivelazione del suo segreto avrebbe avuto, preferiva godersi un altro anno di ricchezza e successo. Si sentiva un vigliacco, ma la sua codardia era ripagata con un conto in banca decisamente gonfio, diverse ville, e un grosso yacht ormeggiato a Portofino. Quando salì nell’abitacolo della sua Bmw, quindi, era più deciso che mai a svolgere tutto come di consueto, per poi rimandare l’intera faccenda al successivo mese di ottobre.

 

 

 

Tornato alla realtà, G. sedette esausto: il pensiero dei ricordi era troppo gravoso per essere affrontato in piedi. Ma un nuovo sguardo lanciato all’orologio gli bastò per capire che non poteva perdere altro tempo: aprì la piccola cassaforte nascosta in un cassetto della sua scrivania e prese due buste, una nera e l’altra bianca, entrambe molto gonfie. Al contatto con la nera, provò un senso di ripugnanza, che tuttavia riuscì a vincere rapidamente. Di lì a qualche minuto percorreva nuovamente il lungo corridoio dell’edificio, questa volta però in direzione opposta. Quando fu fuori dalla struttura, inspirò profondamente, e rimase circa un minuto sotto la pioggia che aveva preso a cadere, assecondando l’infantile idea che quell’acqua potesse purificarlo. Entrò quindi in auto, incurante di rovinare la pelle del sedile, bagnato com’era.

 

 

 

Il viaggio nella sua vettura fu breve ed intenso. Provò ad accendere la radio per sovrastare il rumore dei propri pensieri, ma con risultati tutt’altro che apprezzabili: quando ridiscese dalla vettura oltre che d’agitazione soffriva anche di un leggero mal di testa. Si consolò con l’idea che di lì a poco tutto sarebbe finito, e trovò così la carica sufficiente per entrare nel piccolo salone del bar. Non appena lo fece, fu colto da una grande meraviglia: era vuoto. Non che normalmente si fosse aspettato che quel luogo fosse affollato di clienti e avventori, ma quella sera, a quell’ora, almeno uno doveva esserci. Uscì di nuovo fuori, per controllare se l’uomo che cercava fosse uscito per ingannare l’attesa, ma pioveva, ed era improbabile che ciò fosse accaduto. Rientrò.

 

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«C’è qualcuno?» urlò stizzito in direzione della porta retrostante al bancone. Non ottenne risposta. Decise allora di andare a verificare lui stesso: spinse la porta di legno tarlato, senza inizialmente vedere nessuno. «C’è qualcuno?» ripeté, notando una nota di inquietudine nella propria voce. Niente. Avanzò cauto, sperando con tutto se stesso di udire una voce umana reale, oltre a quella metallica che cantava nella radio. Era chiaro che la stanza era vuota, ma proprio mentre si votava per tornare indietro notò un braccio incorniciato nella finestra che dava sul retro. Forse il proprietario del tugurio era uscito a far qualcosa. G. raggiunse l’uscita sulla parte posteriore e l’aprì. Fu sconvolto da quello che vide: il corpo di un uomo minuto giaceva appoggiato al muro, la sua mano sinistra era poggiata su un bidone della spazzatura che la rendeva visibile dalla finestra. Per quanto il volto fosse ricoperto di sangue, G. non fece fatica a identificare il cadavere: apparteneva al barista.

 

 

 

Un boato sconvolse l’aria e fece suonare l’antifurto di qualche auto lontana: la pioggia scese con maggiore violenza mentre egli si avvicinò al corpo cercando di capire cosa fosse successo di preciso. Scortò subito l’ipotesi che a commettere quell’omicidio fossero stati dei ladri. Del resto, nemmeno l’uomo che doveva incontrare avrebbe avuto motivo per fare qualcosa del genere. Ma ne era sicuro? In fondo, non lo conosceva troppo bene, e inoltre non era certo estraneo ad azioni violente e losche. Si voltò di colpo, sentendosi osservato. «Sei tu?» disse a voce alta, per sovrastare il rumore dell’acqua. Le sue parole si persero nel nulla, eppure era pronto a giurare che qualcuno era lì proprio un attimo prima, mente egli era intento a studiare il corpo martoriato.

 

 

 

Tremando come una foglia, G. decise di rientrare e di allontanarsi da lì quanto prima, ma non ebbe il tempo di aprire la porta che sentì le sirene delle auto della polizia urlare tra il vento e i tuoni. Non poteva farsi beccare lì, specialmente con tutti quei soldi addosso. Decise quindi di scavalcare il cancello che delimitava il piccolo cortile retrostante al locale e di trovare rifugio nelle terre là dietro. Sarebbe rimasto il tempo utile che occorreva alla polizia per compiere i primi accertamenti sul luogo del delitto.

 

 

 

G. corse nella fanghiglia, cercando di allontanarsi quanto più possibile dai tutori della legge in arrivo. La pioggia era ancora insistente, ma gli alberi fitti le impedivano di scendere copiosa. Anche il vento non riusciva a dar sfogo a tutta la sua furia, e si lamentava con rumori inquietanti tra i tronchi e i rami che già perdevano le proprie foglie. Quando G. si fermò per prendere fiato, ebbe appena il tempo di accorgersi in che stato pietoso si erano ridotti i suoi vestiti e le sue scarpe: notò infatti tra gli albicocchi una sorta di sentiero battuto, forse percorso dai contadini per raggiungere i propri poderi. Decise immediatamente di seguirlo, convinto che potesse condurlo fuori da quella terra, magari ad una grossa distanza dal luogo dal quale fuggiva.

 

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Ebbe però percorso soltanto pochi metri quando il suo cuore, che fino ad allora batteva così forte da fargli temere che fosse sul punto di esplodere, si fermò per quello che a lui parve un lunghissimo tempo. Davanti ai propri occhi, proprio al centro del sentiero, giaceva un uomo riverso sulle spalle. La posizione innaturale e il rivo di sangue che gli scorreva dal petto, ben visibile anche in quella semioscurità interrotta dalla luce della luna e delle stelle, bastarono a fargli capire che aveva di fronte a sé un altro cadavere. E non ebbe bisogno di prove per identificarlo, sebbene il volto era nascosto nelle foglie bagnate che coprivano il terreno.

 

«Il prossimo sarò io» disse piagnucolando, con voce più alta di quanto volesse.

Sangue e idromele – parte secondaultima modifica: 2011-10-25T12:04:00+02:00da carminedecicco
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2 pensieri su “Sangue e idromele – parte seconda

  1. Ecco quando la codardia viene ripagata… non solo da un buon conto in banca 😉
    Molto ben scritto, man mano che procedevo nella lettura mi ha preso sempre piu’ 😉 Davvero coinvolgente! 🙂

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