Carmine De Cicco

Ai piedi del Parnaso – Lo scrittore in cella

La letteratura carceraria è fatta di topoi, motivi ricorrenti. Per quanto le cause della detenzione possano essere diverse, per quanto la durata della stessa possa essere ora più breve, ora più lunga, gli scrittori in galera ricorrono ad una serie di luoghi comuni facilmente elencabili. Ce le dice Victor Brombert in “La prigione romantica” un saggio sull’immaginario che essa ha rappresentato per gli autori ottocenteschi. Ma quali sono questi topoi? La crudeltà dei carcerieri, ma anche la presenza del buon carceriere, il contrasto tra lo squallore della cella e lo splendore dell’esterno, visto attraverso le sbarre metalliche o soltanto immaginato, gli atti fittizi di eroismo, le chiacchiere interessate con la figlia del carceriere, la nascita dello spirito da allevatore nei confronti della tipica fauna della prigione: ragni, formiche. Insomma, pur diverse le quattro mura che costringono il prigioniero, le attività di questi sono simile a quelle di altri uomini che patiscono la sua stessa disavventura. E tra queste attività prima tra tutte è la scrittura. Attraverso la scrittura il prigioniero “evade” dalla cella. Un paradosso, se si pensa a quante volte, da libero, uno scrittore cerca la gabbia delle regole per comporre versi o prosa. Un esempio per tutti? Pensate alla struttura-prigione della sestina. Il recluso scrive anche per evitare di impazzire. La follia, infatti, si configura come una minaccia sempre presente nella vita del detenuto. Del resto, di solito le celle sono piene di scritte sui muri di altri prigionieri, precedenti inquilini dell’infausta dimora. Leggerle è anche un modo per tener vivo l’idea dell’Altro, che può e deve restare costantemente accanto al carcerato. Se si scrive, in fondo, è anche in funzione dell’Altro. Per chiedergli aiuto, per avere pietà o semplice conforto, per lasciare una traccia di sé. Per il puro gusto di comunicare, nonostante tutto. Ma anche per insegnare, per educare, per permettere agli altri di trarre beneficio dalla propria cattiva esperienza. Lo fa, a esempio, Silvio Pellico, il prigioniero italiano più noto al grande pubblico di, ormai, due secoli fa. Silvio Pellico patisce duri e lunghi anni di prigionia, che riporterà ne “Le mie prigioni”, date alla luce dopo la liberazione. Quest’opera, lungi dall’essere un libello antiaustriaco come inizialmente da molti fu letto, si configura piuttosto come un testo pedagogico sull’imparare a soffrire, sul capire che in ogni condizione, persino nella più sciagurata, è possibile trovare un conforto. Grazie alla fede. Sì, certo. La fede rappresenta anche’essa uno dei topoi della letteratura in prigione. Con la fede si sopporta la prigionia. E si sopporterà anche dopo, nel corso del Novecento, quando alla cella individuale, dai Piombi di Venezia dai quali evade Casanova, dallo Spielberg austriaco che costringerà il nostro Pellico, si passerà ai lager e ai gulag dei vari Levi e Solženicyn. Ma il Novecento non sarà più il tempo della prigione romantica, della prigionia e della detenzione singola di scrittori e uomini politici. Nel cosiddetto secolo breve la massificazione e la deidentificazione riguarderà anche la prigionia.

Ai piedi del Parnaso – Lo scrittore in cellaultima modifica: 2011-11-26T10:00:00+01:00da
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