Un fischio più forte degli altri, il lento rallentare del veicolo indicò il suo approssimarsi alla stazione terminale, dalla quale sarebbe ripartito solo dopo qualche ora. Pensai: un po’ di meritato riposo anche per questa diabolica ed artificiale creatura, ma non potevo perdere troppo tempo in elucubrazioni, quindi con dolcezza ed il volto trasformato da un sorriso, svegliai la mia piccola amica, che aprendo gli occhi rispose alla mia espressione con uno sguardo pieno di tenerezza. Di lì a poco ci mettemmo in cammino, con passo sicuro e deciso. La sacca, pesante ed ingombrante, la mantenevo io, nonostante le sue insistenze per fare dei brevi turni. Pensavo: tu sei già stanca, io sono più forte, e così proseguivo con un peso che non era poi così gravoso, mentre le strade man mano si spopolavano e le case di quest’altra città si rimpicciolivano e divenivano meno belle, secondo un rituale già noto. Pensavo: tutto il mondo è paese.
Un fischio, improvviso, squarciò la notte. Pensavo: è il treno. Pensavo anche: è impossibile, non può essere già ripartito. Come se avessi fatto queste considerazioni a viva voce, lei mi guardò interdetta, ma io la rassicurai, dandole un leggero bacio sulla fronte mentre la tenevo tra le braccia. Fu allora che una repentina quanto inaspettata folata di gelido ed invisibile vento spense la candela e produsse un intenso fruscio, mentre i rami smossi impedivano alla luce degli astri di illuminarci con costanza. Automaticamente la strinsi più forte, e proprio in quel mentre comparve una giovane donna davanti a noi. Sembrava essere sbucata dal nulla, smunta, emaciata, pallida in volto e nelle vesti. La paura divise il nostro abbraccio. Sentii un nodo alla gola e il cuore accelerare, produrre un rumore possente quanto quello del treno nella sua folle corsa. Anche il mio cuore correva, alternando battiti a battiti sempre più rapidi. Pensai: devo fare qualcosa. Lei mi guardava, sembrava interessata a me e a me soltanto, del tutto indifferente a colei che mi stava accanto.
Non ora, mi rispose, con una voce strappata alla morte, quasi senza muovere le labbra, col corpo completamente immoto. Non riuscivo a staccare gli occhi da lei, e quindi allungai solo meccanicamente la mano verso quella della mia povera amica, immaginando dove potesse essere la sua tremebonda figura. Pensavo: cosa posso fare?
Posso aiutarti in qualche modo, le domandai, con sincerità ed interesse, frammisto ad una paura che sempre più invadeva la mia anima, mentre il vento continuava ad infuriare e la luce quasi più non filtrava tra gli alberi, se non per illuminare la mia inaspettata interlocutrice conferendole un aspetto ancor più irreale e terrificante.
Non ora, mi rispose di nuovo, senza emozioni nel suo parlare, senza intonazione, quasi senza vita. Pensavo: cosa devo fare? E pensavo anche: cosa devo fare? E pensavo continuamente: cosa posso fare? Ma fu lei a compiere un’azione, e io vidi il suo movimento lento ed inesorabile, come l’acqua che calma, goccia dopo goccia, riempie una vasca nella quale è immerso un uomo, che vede la propria morte appropinquarsi senza poter far nulla. Si girò leggermente, mostrando il lato sinistro del collo. Un’asta le era stata conficcata nella carne, in un’immensa, disgustosa macchia di sangue rappreso, che dal punto della penetrazione le colava giù sulla veste, che d’un tratto non mi sembrò più tanto bianca, ma sempre più sporca, sempre più scura. Un urlo di terrore alla mia sinistra empì l’aria. Il mio cuore sussultava, mentre io ansavo fino a quando non sentii più nulla. L’urlo era cessato, il vento non soffiava più, la luce della luna, più intensa che mai, illuminava appieno la scena. Fu allora che riconobbi la piccola asta metallica come una penna, una penna appartenuta a me. Mi coprii gli occhi con le mani, ma ciò non mi impedì di vedere le scene di un infelice amore e di una vita spezzata. Lei era stata la mia fidanzata per diversi anni – come avevo fatto a non riconoscerla subito? – poi il nostro rapporto si era interrotto a causa di un peccato tanto terribile quanto inenarrabile, che mi costrinse ad abbandonare tutto e a lungo vagare tra le infernali terre del rimorso e della pena. Di lei non avevo più nulla saputo, ma ora vidi distintamente i suoi lunghi pianti, i piatti pieni di cibo che lasciava senza toccare, le cure che medici e familiari si affannavano a darle, inutilmente, il suo suicidio, con la penna che io le regalai, segno di un’affezione sincera, simbolo di un tempo felice. Fu l’ultima cosa che vidi prima di perdere la conoscenza, mentre lontano, nella stazione, il treno fischiava e si accingeva a compiere il percorso a ritroso.