Diciottocinque

Distolsi lo sguardo dal libro dopo minuti di lettura intensa e concentrata. Sollevai il capo, fissando i miei occhi sull’enorme edificio alla mia sinistra. Lettere di metallo dorate illustravano la funzione del locale. Gerani rossi ad ogni finestra ingentilivano la facciata color ocra che, pallida, si stagliava contro il viola del cielo al tramonto. Mi girai a destra, osservando gli scogli grigi, possenti, e i gabbiani passeggiarvi sopra, lenti e distratti. L’aria era fresca. Muovendo i piedi urtai contro il corpo di lei. La fissai, con gli occhi che le chiedevano scusa. Mi sorrise, poi chinò nuovamente il capo sui suoi appunti, paziente. Ascoltai il silenzio di quella spiaggia.  Tre, quattro persone oltre noi due. Mute, ferme, solitarie. Qualcuno passeggiava lungo la strada asfaltata, lontano. Improvvisa la voce di una nave, nostalgica. Era tornata al suo porto. Mi chiesi donde venisse, mentre tornavo ad osservare il mio libro. Righe sottolineate, parole-chiave appuntate. Avevo fatto abbastanza per quell’atipico pomeriggio di studio. Mi distesi completamente sull’asciugamani posando la testa sul volume cartaceo. Il rimorso per le pagine che si sgualcivano mi vinse. Mi alzai a sedere, fissai il sole. Moriva, come ogni giorno, per poi rinascere l’indomani, più bello, più maestoso. I suoi raggi declinanti in quel momento rendevano romantico il cielo e la spiaggia. Chissà quante ce n’erano, simili a questa. Eppure stavo così bene, illuso che solo io potessi essere tanto felice. Allungai il braccio e con la mano presi i suoi appunti. Li poggiai sulla sabbia. Piccoli granelli si frammisero alle carte. La abbracciai da dietro, il mio petto contro la sua schiena, sinuosa, elegante. Posai il mento sulla sua spalla, le sfiorai le guance con le mie labbra. Delicate e morbide.

«Guarda il tramonto».

Restammo alcuni minuti in silenzio, abbracciati, entusiasti per la bellezza del panorama.

«È la tua presenza che rende tutto più bello». Ero emozionato, felice.

Innamorato.