L’Autunno in città – terza ed ultima parte

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La grossa aula era semivuota, fredda, e poco illuminata. Dalle finestre, ampie in verità, e numerose, non poteva entrare molta luce perché il cielo era completamente coperto da tetre nuvole, ampie, diffuse. Pioveva ormai da qualche giorno e, come spesso succede in occasioni simili, dopo ore e ore di insistente scrosciare, prevaleva l’idea che piovesse da sempre. Qualche studente, più che ascoltare i discorsi della giovane professoressa, era intento a guardare fuori, sui balconi delle vicine case, immaginando chi ci vivesse all’interno, cosa facesse. C’era anche chi prendeva appunti, i più in maniera saltuaria e svogliata, pronti a distrarsi alla minima occasione, altri, decisamente più pochi, in maniera impeccabile, prestando davvero attenzione alla spiegazione. La maggior parte di essi aveva preso posto ai primi banchi, un po’ per sentire meglio le dotte parole, un po’ per farsi notare dall’insegnate, tuttavia di persone attente e atte alla trascrizione continua e pedissequa della lezione ce n’erano anche in altre zone dell’aula, sparsi qua e là, come un ragazzo che, nonostante seguisse tutto e annotasse con dovizia di informazioni persino ogni esempio che la professoressa riferiva, occupava un posto in una delle ultime file dei banchi. Era seduto da solo, senza la compagnia di nessuno.

 

Fu facile per lui accorgersi ad un certo punto che qualcuno stava arrivando in quella stessa stanza. Sentiva i passi, rapidi e decisi, che man mano si avvicinavano alla porta d’ingresso, socchiusa. Staccò gli occhi dal suo quaderno e si girò verso destra, dove qualche secondo dopo vide entrare una ragazza, alta e magra, un po’ bagnata nonostante l’ombrello nero che stringeva nelle mani. “Quant’è carina”, pensò tra sé e sé il giovane, desiderando per un attimo che lei gli si sedesse accanto. Non accadde, e lui abbassò di nuovo il capo sui propri appunti, recuperando la concentrazione.

 

La ritardataria, dal canto suo, era rimasta sorpresa quando, entrando nell’aula, aveva visto così pochi alunni. Dette la colpa al cattivo tempo, e si sedette in un banco completamente vuoto. Dopo qualche minuto fu pronta per prendere appunti: un quaderno a quadretti aperto davanti a lei, due penne, una blu e l’altra rossa, a portata di mano. Tuttavia, prima che la sua mente riuscisse a concentrarsi sulla lezione, fu invasa da un’ondata di pensieri che da giorni cercava di eludere. Oramai era trascorsa una settimana dall’ultima volta che aveva visto la sua migliore amica, ad un funerale. In quella triste occasione era andata a casa della nonna della compagna a farle le condoglianze, a tenerle compagnia. Ma in effetti avevano parlato poco, né avevano trascorso molto tempo insieme. Inoltre, nel tardo pomeriggio, quando la nipote della defunta le si avvicinò, notò un’espressione infastidita nei suoi occhi. Non ne capì il motivo, né riuscì a giustificarla, e si limitò quindi a salutarla ed andar via, ancora più mesta di quand’era arrivata.

 

“Sarà il periodo”, si disse, ripensando a quanto ultimamente la annoiava lavorare in redazione. La noia, di certo, era figlia della frustrazione, e la frustrazione, a sua volta, figlia della delusione. “Ma in fondo faccio ciò che mi piace”, insistette, senza risultare troppo convincente.

“Sarà il periodo”, ripetè, sforzandosi di concentrarsi sulla spiegazione della professoressa: un ottimo voto a quell’esame l’avrebbe rimessa in sesto. Cominciò a prendere appunti con la sua penna blu, sottolineando in rosso ciò che le appariva di maggiore importanza. Passarono diversi minuti di impegno e buona volontà, poi però, il rosso scomparve, e il foglio non si riempì con la stessa velocità dell’inizio: la lezione andava disperdendosi in rivoli di esempi.

Scocciata, ma decisa a non perdere tempo, la giovane prese dalla sua borsa il manuale che aveva appena acquistato, lo mise sul banco, lo aprì. Cercò nell’indice la collocazione dell’argomento che si stava ora affrontando al corso, lo trovò, cominciò a leggere. Le sembrava tutto troppo simile a ciò che aveva da poco ascoltato. Stessi concetti, ovviamente, ma anche identico modo di presentarli, medesimo ordine. Smise di leggere e seguì qualche minuto ancora la lezione, poi tornò a guardare il libro, per individuare ciò che aveva appena sentito. Lo trovò, senza troppe difficoltà. La professoressa proseguiva e lei portava il segno sul proprio volume. Probabilmente i fogli dai quali la docente leggeva – sì, perché leggeva proprio, come suo malgrado la ragazza ebbe modo di constatare – dovevano essere le bozze preparatorie del manuale che aveva adottato per il corso. Del resto, lo aveva scritto lei. La giovane sbuffò, e due minuti dopo fu fuori dall’aula. “Che situazione degradante!”, pensò, mentre scendeva dagli ampi e ricercati gradini dell’edificio universitario. “Anche questa!”, aggiunse, frustrata.

 

***

 

Procedeva lenta per vie familiari, indifferente a ciò che le stava intorno. Era stanca, annoiata, quello davvero era un pessimo periodo. Solo quello? Le sue elucubrazioni, improvvisamente, furono però interrotte da una voce infantile che richiamava l’attenzione di una mamma. Automaticamente, si voltò anch’ella al richiamo, nella direzione dalla quale provenivano le parole. Il bambino, piccolo e buffo nel suo grosso cappotto blu, indicava uno stretto viale completamente invaso da foglie cadute e secche, ma nobili e splendide. Il vento faceva frusciare i platani e qualche foglia più debole lasciava il proprio ramo per raggiungere la terra, non prima di essersi concessa un’ultima elegante danza nell’aria dolce e delicata.

«È già arrivato l’autunno!» esclamò allora sorpresa e ad alta voce, mentre un delizioso e rinfrancante sorriso le si dipingeva sul volto e nel cuore.

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L’Autunno in città – terza ed ultima parteultima modifica: 2009-11-17T15:24:00+01:00da carminedecicco
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